La panchina di Mariella Forever

10 febbraio Giorno del ricordo La tragedia delle foibe

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    "Mio papà, poliziotto nelle foibe. ​Ucciso solo perché era italiano"

    "Mio papà, poliziotto nelle foibe. ​Ucciso solo perché era italiano"
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    Tra le circa 10mila vittime delle foibe ci sono anche loro, 89 guardie di pubblica sicurezza della questura di Fiume uccise dopo l'invasione della città da parte delle milizie di Tito. Lo stesso tragico destino toccato a circa 90 poliziotti di Gorizia e 150 agenti di stanza a Trieste. Tutti accusati dello stesso identico 'crimine': essere italiani.

    Quel giorno c'era anche Anna Maria Bruno. Erano le due del pomeriggio del 5 maggio 1945 quando suo padre, Luigi Bruno, si recò di spontanea volontà alla questura di Fiume per consegnare le armi, così come ordinato dai comunisti jugoslavi. La piccola Anna aveva appena 7 anni. «Ricordo mia madre pregarlo di non andare, come se presagisse qualcosa di terribile». E infatti a casa Luigi non fece più ritorno: i titini lo portarono al carcere insieme ad altri agenti e civili inermi. «Nei giorni successivi andammo a cercare sue notizie. Di fronte al portone del carcere mia madre mi disse di chiamarlo per fargli capire che eravamo lì. 'Papà, papà', urlai con tutta la voce che avevo in gola. Lui mi sentì. Da una fessura della finestra della cella fece un cenno con la mano e mi chiamò per nome. Quando alzai lo sguardo per ricambiare il saluto, un soldato cominciò a sparare nella nostra direzione»

    Quel saluto probabilmente costò a Luigi Bruno la sofferenza della tortura. Un dolore che in qualche modo unisce ancora oggi padre e figlia, come un cordone indistruttibile che lega due destini. «Hanno distrutto la mia infanzia. Ho conosciuto l'orrore. Un giorno a Fiume vidi un carabiniere appeso ad un gancio da macelleria, con due stellette al posto degli occhi e un cartello con la scritta: 'Carne di basso macello'». Poi l'esodo, la fuga, il timore per le violenze della polizia segreta, un anno di vita a Udine, infine il ritorno forzato a Caltanissetta. «La mia agonia iniziò solo a guerra finita: quando in Italia si festeggiava la Liberazione per me iniziò la vera odissea».

    Già, perché dopo la persecuzione titina gli esuli provarono con mano anche l'indifferenza della loro Patria. Quell'Italia di cui si sentivano figli e che però li guardava con distacco. «Una bambina a scuola un giorno mi disse: 'Non puoi venire alla festa perché sei una profuga'. I bimbi sanno essere spietati, è vero. Ma la frase spiega bene l'accoglienza che alcuni italiani ci riservarono in quegli anni». Una diffidenza tanto radicata da ostacolare la ricerca di notizie sulla sorte di Luigi. «A mia madre consigliavano di non fare troppe domande. Della storia di papà conservo tutto, tranne una lettera. Quella con cui ci comunicarono la sua morte. Mia mamma la strappò in un impeto d'ira, poi mi prese in braccio e mi disse: 'Annuccia, non sperare più. Papà non tornerà'. Decisi allora che avrei fatto di tutto per per onorare il suo ricordo».
    Compito difficile, quello della memoria. A Caltanissetta hanno dedicato una via a Luigi Bruno, ma nessuno sembra più ricordarsene. Né la questura né le istituzioni hanno portato fiori in suo ricordo nel giorno del Ricordo. E non è questione di negazionismo, s'intenda. Sembra che sulle foibe permanga un velo di scetticismo capace di relegare in un angolo gli infoibati. Ogni 10 febbraio la solidarietà si accende e si spegne rapidamente. Per poi tornare l'anno successivo. «Ogni volta provo speranza: la speranza che finalmente si parli di noi senza timore. Ma poi il sentimento si trasforma in rabbia, rabbia e tristezza. Non chiediamo molto alle istituzioni, ci basta il dono di un fiore di campo per riconoscere che in quelle foibe giacciono dei martiri. Si dice che il fumo di Auschwitz arriva fino al cielo. Bene. Allora al cielo arrivi pure il lamento degli infoibati».

    All'amarezza si aggiunge lo sconforto di non avere ancora una tomba su cui piangere. «A Fiume ho lasciato il bene più grande, che ancora non so dove sia finito: mio padre. Sogno di poter scoprire un giorno dov'è precipitato, per portare un fiore e dire una preghiera». Quando Luigi morì aveva solo 52 anni. «Un uomo eccezionale, un papà affettuoso e un poliziotto integerrimo», ricorda Anna. «Sono fiera di lui perché con il suo esempio mi ha guidato nel mio percorso di donna, di madre e di italiana».

    Spesso nel cuore di chi è cresciuto lontano da Fiume convivono orgoglio e dolore. Ed è questa la forza degli esuli. «Nei miei occhi vedo ancora i militari titini bruciare le bandiere italiane. Ricordo la paura, l'esodo e la fame. Ricordo quella mano che mi salutava dalla finestra del carcere di Fiume. La mano di un poliziotto fiero, ucciso perché italiano».
     
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    Campo profughi delle Noghere, la presentazione
    „La storia dimenticata del campo profughi delle Noghere“

    Campo profughi delle Noghere, la presentazione
    „Lunedì 18 febbraio presso la sala Millo di Muggia verrà presentato il libro "Il piccolo esodo dei muggesani e il campo profughi delle Noghere" di Francesco Fait. Una buona occasione per venire a conoscenza di una storia pressoché sconosciuta ai più. Inizio alle 18“

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    Campo profughi delle Noghere, la presentazione

    Nell’ottobre del 1954, a seguito del Memorandum di Londra, una metà circa del Comune di Muggia venne ceduta alla Jugoslavia generando lo spostamento forzoso di circa 3.000 persone. Fu l’ultimo e il meno ingente degli esodi dei giuliano dalmati, un piccolo esodo ma non per questo meno interessante, che determinò tra le altre conseguenze la nascita del campo profughi delle Noghere. Qui convissero per lustri questi muggesani, per lo più operai dell’industria meccanica rimasti ostinatamente comunisti, con istriani credenti e prevalentemente democristiani.

    Il piccolo esodo dei muggesani e il campo profughi delle Noghere è il frutto di una ricerca che si basa su fonti di archivio e su interviste a persone che hanno vissuto i fatti narrati ed è corredato da 97 bellissime fotografie provenienti per la maggior parte dalla Fototeca dei Civici musei di storia ed arte di Trieste."

    Il volume
    Il libro di Francesco Fait racconta due vicende collegate: il più piccolo degli esodi che hanno interessato l’Europa nel secolo breve, quello dei muggesani, e la vicenda del campo profughi delle Noghere, progettato per ospitare i suoi protagonisti. Un esodo trascurabile, quasi insignificante, che ha interessato meno di tremila persone: un’inezia rispetto ai cinquanta milioni di vittime di deportazioni o trasferimenti forzati, forzosi o volontari di prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale.

    Trascurabile, quasi insignificante, un’inezia; beninteso, rispetto ai grandi numeri appena citati e solo per chi è un osservatore dei fatti della Storia. Per chi lo ha subìto e vissuto, viceversa, un colpo durissimo.

    Per questi muggesani l’irruzione della Storia si manifestò all’improvviso, nel mese di ottobre dell’anno 1954, sotto le sembianze di militari americani, inglesi e jugoslavi, genieri e tecnici, accinti a consultare mappe, prendere misure e piantare sul terreno paletti di colore giallo per tracciare il nuovo confine destinato a separare il Comune di Muggia dalle sue frazioni dei Monti per assegnarle definitivamente alla Jugoslavia. Un confine che divise terreni e poderi e talvolta persino case, che restarono per metà al di qua e per metà al di là di quella linea innaturale e capricciosa. E le fotografie che si trovano nel volume – bellissime fotografie, fotografie che si possono senza esagerazione dire cinematografiche – ci raccontano di piccole folle di gente con il fiato sospeso per conoscere il destino proprio e dei propri averi e delle loro reazioni di fronte alla sorte quando questa si rivelava sfavorevole. Reazioni molto spesso di disperazione e impotenza, come nel caso della donna con la faccia ghermita dalla sua stessa mano, bellissima mano di contadina; ma talvolta anche di rabbia, altrettanto impotente, come nel caso dell’uomo, anch’egli un contadino, trattenuto a stento dagli agenti della polizia civile: quasi un moderno ma pallido e inconcludente erede di Antigone, figura della tragedia classica che ci ha insegnato che esiste un diritto naturale alla ribellione se il fine è sfuggire ad una legge empia e scellerata.

    A volte gli avvenimenti ricostruiti da Francesco Fait nel suo libro virano dalla tragedia alla farsa, senza però che ciò depotenzi la cupa atmosfera di dramma ma, al contrario, contribuendo a rafforzarla. È il caso della vicenda della famiglia Lenardon, che ebbe terra e casa divise dal confine, e del loro maiale, che venne sequestrato dalle autorità jugoslave in quanto la stalla insisteva in territorio passato alla Jugoslavia. Maiale che le autorità medesime non volevano restituire nemmeno dopo che, a seguito di apposita vertenza internazionale, il confine venne rettificato e terra e casa e stalla (e maiale) dei Lenardon vennero riassegnati all’Italia.

    Il campo profughi delle Noghere
    Nella seconda parte di questo piccolo e prezioso libro (il più breve ma il migliore che io abbia letto sull’esodo) viene raccontata la storia del campo profughi delle Noghere, anch’esso muggesano, che rappresenta un caso unico rispetto alle decine e decine di strutture simili (campi profughi appositamente allestititi o caserme o alberghi temporaneamente sequestrati) che la Repubblica italiana predispose per offrire una prima risposta agli esuli nella provincia di Trieste e in tutto il Paese. Un campo che era diviso a metà da un altro confine, immaginario ma affatto privo di implicazioni, che separava la metà dei muggesani venuti via dai Monti, prevalentemente operai atei e comunisti, dalla metà degli istriani, nella stragrande maggioranza dei casi credenti e democristiani. E insieme a questi italiani che avevano scelto di restare in seno alla propria madrepatria, nel campo profughi delle Noghere vissero anche tanti sloveni, provenienti sia dal muggesano che dall’Istria. Un vero e proprio microcosmo, che riproduceva in formato ridotto le suddivisioni politiche e nazionali che, allora e per tanti anni ancora, separavano e avrebbero separato l’Italia e l’aldilà e l’aldiquà del cosiddetto confine orientale. Un mondo di divisioni quindi, ma anche di condivisioni di quella vita difficile e a tratti cruda, ma eticamente e profondamente sociale, conviviale e genuina. Che nel caso di ragazze e ragazzi di allora, i cui ricordi sono stati raccolti dall’autore che li ha trasformati in fonti storiografiche orali per mezzo di venti interviste, fu un mondo di libertà di vita ed azione, seppure in mezzo a difficoltà materiali spesso veramente molto dure, e di amicizia e fratellanza con i coetanei, seppure a volte aspre e non prive di conflittualità. Un passato verso cui guardare, a distanza di decenni, con occhi velati dalla nostalgia del tempo che fu e verso il quale provare, in certi casi, quella sorta di gratitudine che a volte nella vita si scopre di sentire per episodi o fasi della propria vita difficili, ma profondamente e dolorosamente forgianti e formative.



    Potrebbe interessarti: www.triesteprima.it/
     
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    12 cose da sapere sulle Foibe
    Il ricordo delle foibe che ancora divide l’Italia è uno degli episodi più drammatici e sconosciuti della seconda guerra mondiale. Ecco 12 cose da sapere per farsi un'idea in occasione della giornata del ricordo 2019.




    COME AVVENIVANO LE ESECUZIONI
    Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.



    LE “DUE” FOIBE
    Il fenomeno “foibe” è riferito fondamentalmente a due eventi distinti, con dinamiche e modalità diverse: il primo è successivo alla dissoluzione dell’autorità italiana con l’armistizio dell’8 settembre ’43 e riguardò principalmente l’Istria, il secondo è conseguenza della presa di potere da parte dei partigiani e dell’Esercito Popolare Jugoslavo nel maggio del ’45.







    LE FOIBE ISTRIANE DEL ‘43
    La prima ondata di violenza esplose dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti che, nell'intervallo tra le due guerre, avevano amministrato questi territori con durezza, imponendo un'italianizzazione forzata e reprimendo e osteggiando le popolazioni slave locali.
    Con il crollo del regime i fascisti e tutti gli italiani non comunisti vennero considerati nemici del popolo, prima torturati e poi gettati nelle foibe. Morirono, si stima, circa un migliaio di persone.

    LE FOIBE GIULIANE DEL ‘45
    La violenza aumentò nella primavera del 1945: alla fine della seconda guerra mondiale l’esercito jugoslavo occupò Trieste (1 maggio ’45), riconquistando i territori che, alla fine della prima guerra mondiale, erano stati negati alla Jugoslavia. Tra maggio e giugno migliaia di italiani abitanti dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra. Altri furono uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati. I primi a finire in foiba furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza, nonché i pochi militari fascisti della RSI e i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori). Ma vennero giustiziati anche i partigiani che non accettavano l’invasione jugoslava e normali cittadini (per regolamenti di conti personali o per la volontà di attuare una rivoluzione comunista).

     
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    Il nostro valore caro Paolo si chiama DIGNITA' cosa che non hanno MAI avuto i Governi che si sono succeduti nei nostri confronti, fatta salva la legge che ha promulgato il GIORNO DEL RICORDO
     
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    “Il Giorno del ricordo è una solennità civile nazionale italiana, celebrata il 10 febbraio di ogni anno. Istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92[1] essa vuole conservare e rinnovare «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo …
     
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    Foibe, approvata la risoluzione di Fdi per trasmetterne la memoria: nelle scuole e con un Treno del Ricordo

    In vista del “Giorno del Ricordo” che sarà celebrato il prossimo 10 febbraio per commemorare la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo delle popolazioni italiane dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, la Commissione Istruzione della Camera ha approvato a larghissima maggioranza (con il voto favorevole di tutti i gruppi, eccetto il rappresentante di Verdi e Sinistra) una risoluzione presentata dal gruppo di Fratelli d’Italia in commissione, primo firmatario il capogruppo Alessandro Amorese.


    Foibe, approvata Commissione Istruzione della Camera la risoluzione di Fdi per il “Treno del Ricordo”
    La risoluzione ha l’obiettivo di impegnare il governo ad incrementare le iniziative nelle scuole e al di fuori per trasmettere e conservare la memoria della storia e della tragedia dei nostri confini orientali. A tal fine si prospettano seminari di studio e incontri nelle scuole, con la partecipazione di testimoni dell’esodo e appartenenti ad associazioni di esuli istriano-giuliano-dalmati. Nonché la diffusione di opere artistiche. Cinematografiche. Teatrali e letterarie, con particolare riferimento alla medaglia d’oro Norma Cossetto. Inoltre, si impegna il governo a sostenere la realizzazione di mostre e convegni con il coinvolgimento di comuni e regioni. E, soprattutto, di un “Treno del Ricordo,” sul modello del “Treno del Milite Ignoto”, con una mostra multimediale itinerante che raggiunga un gran numero di città.
     
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